top of page

Brexit: dove siamo arrivati e dove si andrà

29 marzo: è questo il giorno in cui, salvo sorprese o proroghe, il Regno Unito uscirà ufficialmente dall’Unione Europea.

Il processo che porterà il Regno Unito ad abbandonare l’Unione è però entrato in una fase di grande incertezza dopo la bocciatura lo scorso 15 gennaio, da parte del Parlamento britannico, dell’accordo sull’uscita proposto da Theresa May. Tale accordo doveva regolare ogni aspetto dei rapporti futuri tra Regno Unito e Unione Europea e quindi rivedere i trattati già in vigore tra le due parti.

Adesso gli scenari immaginati sono molteplici, e vanno dall’indizione di nuove elezioni generali per rafforzare o abbattere definitivamente la leadership della May, fino a un nuovo referendum; o ancora, molto più semplicemente, la posticipazione della data della Brexit.

Vale la pena però fare un veloce excursus su quanto è accaduto dalla data del referendum fino ad oggi.

Bisogna innanzitutto ricordare che il referendum tenutosi il 23 giugno 2016 è di natura consultiva e non è vincolante; per poter avviare i negoziati per l’uscita dall’Union e Europea a norma dell’articolo 50 del Trattato di Maastricht era necessario quindi il passaggio parlamentare.

Nel gennaio del 2017 il nuovo governo conservatore guidato da Theresa May ha quindi presentato al Parlamento l’European Union (Notification of withrawal) Bill, che è stato definitivamente approvato nel marzo dello stesso anno. Il 29 marzo del 2017 l’ambasciatore britannico presso l’Unione Europea ha consegnato al Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, la lettera della premier May con la quale sono è stata avviata la procedura prevista dall’articolo 50 e dunque i negoziati tra l’Unione e il Regno Unito. Si era già allora previsto che tali negoziati durassero 2 anni e dunque il 29 marzo 2019 era stata fissata come data ufficiale della Brexit.


Nel maggio del 2017 Theresa May ha convocato nuove elezioni generali per il rinnovo della Camera dei Comuni; il suo scopo era quello di sfruttare la crescita nei sondaggi del Partito Conservatore per rafforzare la sua leadership e allargare la maggioranza alla Camera dei Comuni, fortemente risicata dopo le elezioni del 2015. Tuttavia, le elezioni, tenutesi l’8 giugno, si sono rilevate un boomerang e i conservatori hanno perso la maggioranza in parlamento. La May è stata quindi costretta a formare un governo con l’apposto degli unionisti irlandesi; fatto che, evidentemente, ha indebolito la sua posizione e reso ancor più difficili i negoziati, i quali sono iniziati il 19 giugno successivo.


Il dibattito intorno ai negoziati si è caratterizzato per la contrapposizione tra i sostenitori di una hard Brexit e quelli di una soft Brexit; i primi vorrebbero che il Regno Unito si ritirasse da tutti i trattati firmati con l’unione Europea, mentre i secondi vorrebbero restare quanto meno nel mercato unico. Evidentemente, l’esito delle elezioni del 2017 ha ridotto la forza contrattuale del governo britannico allontanando così l’ipotesi di una hard Brexit. E infatti, il 19 marzo 2018, il Regno Unito e l’UE hanno concordato un piano di transizione di 21 mesi per evitare proprio una hard Brexit: una sorta di salvagente per l’Unione nel caso in cui non si arrivi ad un accordo formale prima della scadenza e che permetterebbe al Regno Unito di rimanere nel mercato unico fino al 31 dicembre del 2020.

I negoziati hanno però creato forti malumori all’interno del Partito Conservatore e con gli alleati, gli unionisti nordirlandesi, e hanno persino portato alle dimissioni dei ministri sostenitori di una hard brexit, tra cui Boris Johnson, primo sostenitore della Brexit tra i conservatori durante la campagna elettorale prima del referendum; negli ultimi mesi del 2018 l’accordo tra il governo britannico e la delegazione europea è comunque stato raggiunto, ma il 15 gennaio del 2019 è stato bocciato dalla Camera dei comuni a causa del voto contrario dei conservatori sostenitori di una hard brexit.

E adesso?

Mancano solo 45 giorni al 29 marzo e per evitare un no deal brexit, in questo lasso di tempo il primo ministro britannico dovrà cercare a tutti i costi di trovare un accordo che sia soddisfi le istituzioni europee sia ricompatti il suo partito.

Le problematiche da affrontare sono numerose: vi è la questione della circolazione di persone e merci al confine tra Irlanda del Nord e Repubblica di Irlanda; vi è poi quella sulla Scozia, per la quale si sta ripensando a un nuovo referendum per uscire dal Regno Unito e rientrare nell’Unione Europea; e infine la questione dei diritti e delle garanzie per cittadini europei residenti in Regno Unito.


Chiaramente, rivedere 46 anni di trattati non è facile; tuttavia un’uscita senza accordo sarebbe dannosa non soltanto per il Regno Unito ma anche per l’Unione Europea. La mancanza totale di un nuovo accordo rende difficile al momento dire cosa potrebbe succedere; i più pessimisti già immaginano il disastro economico per il Regno Unito (chiusura dei porti, crollo delle compagnie aeree e scarsità di beni di prima necessità); effettivamente sembra difficile crederci ma l’unica cosa certa è che l’incertezza politica ed economica non giova e non gioverà a nessuno; e l’economia britannica già ne paga le conseguenze.

Saranno 45 giorni intensi per la politica e la diplomazia europea; tutti, politici, imprenditori, istituti finanziari ma anche semplici cittadini, staremo a osservare quello che accadrà, nella speranza che si arrivi a un accordo che, quanto meno, limiti il più possibile i danni inevitabili.


Paolo Iovino.

0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

15 marzo

bottom of page