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PUNTO ROSSE E SPERANZE

Qualche mese fa, da normale studente “fuorisede”, stavo tornando a casa mia a Reggio Emilia. Quasi sempre uso Blabla Car per fare il viaggio. Non solo per una questione economica o di tempi, ma perché mi piace: hai sempre l'occasione di parlare con persone nuove, di tutte le età, chi studia, chi lavora, chi semplicemente parte per una vacanza.


Tutti hanno una storia da raccontare, delle idee, delle opinioni, a volte molto lontane dalla mia, ma di cui è sempre interessante discutere. E poi si parla ovviamente anche di calcio.

Quel viaggio l'ho fatto a bordo di una Punto rossa Ferrari.


Al posto del guidatore c'era Marco, un signore di una sessantina d'anni che stava tornando a casa sua, a Napoli. Mi racconta che quella strada l'ha fatta ormai centinaia di volte, e che non ha mai smesso di tornare per un matrimonio, salutare un amico o un cugino. Quando era giovane la faceva tutta di notte per arrivare il prima possibile. Ai tempi non c'era il Tutor in autostrada, col buio non c'erano neanche controlli della polizia e quindi teneva il piede un po' troppo pesante sull'acceleratore. La mia domanda, ad un certo punto, arriva spontanea: “Dopo essere cresciuto a Napoli, come è vivere a Trento?”. La sua risposta mi sorprende: è un amante della montagna, non gli manca praticamente mai il mare, il caldo, il cibo partenopeo.

“C'è solo una cosa che per tanti anni mi ha reso difficile ambientarmi. I trentini non mi vedevano di buon occhio perché venivo “da sotto al Po”.

Mi racconta che si è sposato con una donna di Trento e che gli amici di lei, quegli amici con cui si cresce e che si conoscono da quando si è piccoli piccoli, da quando si sono sposati sono scomparsi. Hanno cominciato ad ignorarla, a trovarsi senza invitarla. Quasi a non parlarle più. Così, di punto in bianco, solo perché aveva sposato un “terrone”. Ma aggiunge, forse vedendo la mia faccia “Ma ormai non è più così. L'Università, alcune scelte dell'Amministrazione, il tempo hanno reso Trento una città molto più “aperta”. Adesso queste cose non succedono più”. Sospiro di sollievo, pericolo scampato. Ma è davvero così?


In questi giorni è uscito uno studio dell'Iprase, l'Istituto provinciale per la ricerca e la sperimentazione educativa, svoltosi nell'anno accademico 2017/2018 tra gli studenti trentini tra i 14 e i 18 anni, in cui emerge che i ragazzi trentini hanno un livello di pregiudizio etnico un po' più elevato dei propri coetanei del Nord d'Italia, anche se ovviamente si parla di una differenza di pochi decimi.



Sembra uno di quegli studi da “professoroni di sinistra”, e forse è veramente così, se non si prendono questi dati un po' “con le pinze”, guardandone solo determinati aspetti. Innanzitutto partendo dal termine usato dall'Iprase. Si parla di “pregiudizio etnico”, non di “razzismo”. Questa scelta lessicale, che sembra casuale, in realtà non lo è. Non significa odio, paura, intolleranza da Governo Fascista. Si può inquadrare bene con un esempio concreto: il “pregiudizio etnico” è quella sensazione che ti fa avvicinare la mano al portafoglio quando sull'autobus hai un nero accanto a te, o quando la sera, in zona stazione, passi accanto ad un gruppo di slavi o di africani e ti senti improvvisamente quasi in pericolo. Sembra una cosa da niente, quasi normale, ma non va assolutamente sottovalutata.


Uno di questi giorni, sotto un qualche post che francamente non ricordo, ho letto un commento che mi ha colpito così tanto che me lo sono segnato. Un utente scriveva: “La gente non sarebbe razzista se non ci fosse motivo”. E ha perfettamente ragione. Non specifica quale può essere il “motivo”. Non è detto che sia un aumento della criminalità o degli stupri a causa dell'immigrazione, magari un omicidio. Questa ragione può essere anche la perdita del lavoro che colpisce molti “bianchi” Italiani, la recessione economica. Il razzismo è solamente una valvola di sfogo alla rabbia, alla disperazione, al risentimento delle persone. Rinasce quando rinasce il risentimento verso la propria vita o la società. Si individua un nemico, un classico “capro espiatorio” per ogni colpa, e gli si punta costantemente il dito contro. Il pregiudizio etnico non è razzismo. Esiste, indipendentemente dal momento storico, dalla situazione economica, dalle vite delle persone: è più velato, più nascosto, ma anche più socialmente accettato.


È un riflesso incondizionato, quasi spontaneo, di cui non ci si vergogna perché più o meno lo hanno tutti. Ed etnico non vuol dire “nei confronti degli immigrati”. Può voler dire anche nei confronti dei cinesi, dei francesi, dei Terroni, dei cittadini della Valle vicino alla mia. È quel sentimento che ti fa cancellare dalla tua vita l'amica di sempre, solo perché suo marito è napoletano, così, senza un motivo particolare. Ma è giusto così, perché anche tutti gli altri fanno così.


Il silenzio della Brennero alle due di notte viene squarciato da una Punto Rosso che sfreccia un po' troppo veloce verso Modena. Marco ha gli occhi lucidi. Quella mattina c'è stato il battesimo di Giulio, il primogenito di Lucia, una delle migliori amiche di sua moglie, la prima che lui ha conosciuto. Loro due non sono stati invitati, come in diverse occasioni precedenti. Marco s'impone di non pensarlo neanche, ma si sente un po' in colpa. Ha la strana sensazione di avere rovinato la vita a sua moglie, chiedendole di sposarlo. Nel sedile vuoto accanto a lui c'è il giornale di quella mattina. Il titolo principale è tutto per l'Università di Sociologia, aperta qualche anno prima a Trento, che ha già un boom di iscritti da tutta Italia. Marco lo guarda con la coda dell'occhio. “Le cose cambieranno” continua a ripetersi. “Le cose cambieranno presto”. Forse. O forse non cambieranno mai.

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